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Traduzione di Marco Gasparri

Lo sguardo inquieto del regista brasiliano César Meneguetti

 

Fabrice Akwa

César Meneguetti, regista brasiliano

César Meneguetti, 42 anni, è un regista paulista, formatosi in Arti Visive nella FAAP (Fondazione Armando Álvares Penteado) di São Paulo. Amante di filmati sperimentali, si trasferì a Londra alla fine degli anni 80 per conoscere il "massimo della tecnologia applicata alle arti" e "i produttori mondiali di cultura".

Là dovette improvvisarsi cameriere per riuscire a mantenersi e a terminare la specializzazione presso la "City of London Polytechinic", visto che la promessa borsa di studio non era arrivata. Subito dopo, scoperte le meraviglie del cinema classico, il videoartista aggiunse al suo bagaglio una prima pellicola in 16 mm e venne in Italia dove guadagnò l'accesso a uno dei posti riservati nella rinomata scuola di cinema di Cinecittà. Fu sempre a Roma, dove vive ancor'oggi, che conobbe sua moglie, la regista italiana Elisabetta Pandimiglio, con cui divide la maggior parte delle produzioni e dei premi internazionali, fra i quali il prestigioso "Nastro D'Argento".

Le tematiche principali dei suoi lavori sono state l'immigrazione, la globalizzazione e l'esclusione sociale. Tutto questo senza metter da parte lo sguardo inquieto di regista alla ricerca di nuove estetiche. Tra le produzioni più conosciute in Italia ricordiamo "Cachorro Louco" - che parla del lavoro dei motoboys di São Paulo -, e che è stato selezionato per più di 30 festival del cinema e del video in tutto il mondo, e il documentario "Sem Terra" - che parla della vita di un uomo che vive fra due famiglie: una in Brasile e l'altra in Italia - che ha ricevuto 23 premi fra Europa e Brasile.

 

Come decise di diventare regista?

A dire il vero io credevo che fare cinema fosse qualcosa di molto difficile, lontano dalla realtà. Riuscii a studiare Comunicazioni Visive e, durante l'università, mi avvicinai al cinema di animazione. Mi piaceva fare lavori concettuali, di pura sperimentazione. La passione per la narrativa e per le tecniche del cinema classico nacque più tardi.

Perchè decise di trasferirsi a Londra?

Lasciai il lavoro in una agenzia pubblicitaria a São Paulo per fare una specializzazione in videoarte a Londra. Studiare in Europa significava poter conoscere da vicino la vita dei produttori mondiali della cultura. Oltretutto, negli anni 80 l'Inghilterra aveva le più avanzate tecnologie applicate alle arti, era il massimo. Era come se io fossi stato catturato dal centro del mondo culturale, che in quell'epoca era Londra.

Al di là della tecnologia, che c'era di tanto differente dalla produzione brasiliana?

Sono riuscito a fare due corsi mentre stavo là. In uno di questi ho studiato le teorie del cinema e, nell'altro, ho avuto la possibilità di mettere in pratica la parte tecnica come scrittura, fotografia, ripresa, ecc... Ma quello che più ho appreso dagli inglesi è stato come preparare ed organizzare il lavoro creativo. Loro hanno un modo più razionale di vedere il mondo e questa caratteristica è importante anche per chi lavora con la cultura. Non basta essere creativi ed aver fortuna, è necessario razionalizzare le proprie potenzialità.

Come era la vita da immigrante a Londra? Come si manteneva?

Ero giunto a Londra con la certezza di ricevere una borsa di studio, che finì per non arrivare. La situazione peggiorò quando andai a fotografare le gare di Formula 1 a Silverstone, visto che alcune persone mi avevano chiesto immagini di Senna, di Nigel Mansel, ecc... Avevo investito in viaggi ed equipaggiamenti e, alla fine, nessuno acquistò il mio lavoro. Ho ancora oggi quelle foto. La soluzione fu quella di fare il cameriere per un anno, fino a che ottenni, grazie ad un'amica, un impiego come disegnatore grafico. Ma non ero soddisfatto, perchè era lo stesso lavoro che avevo svolto a São Paulo.

E allora venne in Italia...

Venni in Italia nel 1990, in vacanza, con alcuni amici. All'epoca erano aperte le iscrizioni per la scuola di cinema di Cinecittà, la più antica d'Europa. Presentai il mio primo 16 mm, fatto in Inghilterra, e ottenni l'unico posto riservato agli alunni stranieri, che dava diritto ad una borsa di studio. In più, avevo appena ottenuto la cittadinanza italiana per discendenza, cosa che facilitò molto la mia permanenza qui.

Fu durante questo corso che si avvicinò al cinema classico?

Sì. Fino ad allora, ero solito fare lavori concettuali di videoarte. In Brasile, siamo più abituati a produzioni sperimentali. Deve essere a causa delle difficoltà che abbiamo là - come la mancanza di denaro - fatto che ci obbliga ad essere creativi e ad incontrare soluzioni nuove ai problemi. Come ad esempio la "estética da fome" (estetica della fame) di Glauber Rocha, che si collega molto alla necessità di improvvisazione, naturale per i brasiliani. È quello che noi chiamiamo "fazer das tripas coração" (letteralmente: fare dell'intestino il cuore - espressione idiomatica brasiliana, cioè: fare il possibile e l'impossibile). Alla fine, le nostre carenze si tramutano in vantaggi per il processo creativo.

Come avvenne il suo avvicinamento al mercato di lavoro italiano?

Poco dopo il corso a Cinecittà ricevetti varie proposte di lavoro. Ho collaborato con grandi nomi del cinema internazionale come Jane Campion, ("Portrait of Lady"), Cipri & Maresco ("Lo Zio di Brooklin"), Aurelio Grimaldi, Paolo Benvenuti, fra i tanti. Nel frattempo, producevo parallelamente i miei film.

I suoi film si occupano quasi sempre di temi sociali. La sua è una visione brasiliana?

Tento di fare film che possano essere utili alla società, senza mettere da parte la preoccupazione estetica. Ho uno sguardo molto inquieto, sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e bello, ma che al tempo stesso abbia rilievo sociale. Le tematiche non sono nè brasiliane nè italiane, sono universali. Uno dei miei film, per esempio, parla della vita di una contadina che ha attraversato le due guerre, che ha vissuto durante il fascismo. In "Cachorro Louco" parlo di un fenomeno del mondo del lavoro come quello dei motoboys di São Paulo.

Com'è dividere la vita lavorativa con sua moglie?

Elisabetta mi completa in tutto, come persona e come professionista. Abbiamo due modi differenti di vedere il mondo, ovviamente, essendo lei italiana ed io brasiliano. Credo che questa miscela sia il nostro differenziale. Come dice Arnaldo Antunes, "riquezas são diferenças" (le ricchezze sono le differenze).

È più facile fare cinema in Brasile o in Italia?

Per chi sta cominciando, oggi è più facile in Brasile, a causa della legge sugli audio-visivi emanata dal ministro della cultura Gilberto Gil. Invece in Italia, il governo Berlusconi ha bloccato i finanziamenti all'area culturale pensando che tutti quelli che lavorano in questo settore siano di sinistra.

Ha qualche progetto in corso?

Sto realizzando un documentario su un importante ciclista italiano ed un altro che parla della vita dei pensionati italiani nell' "epoca Berlusconi". Sto anche lavorando in un progetto brasiliano, che parla della vita di un professore di biologia che fuggì dal Brasile nel 1969, accusato di terrorismo dalla dittatura. Al di là di questo, sto cercando fondi per produrre un film su Charles de Menezes, il brasiliano ucciso dalla polizia nella metropolitana di Londra lo scorso anno. É un progetto ambizioso. Chissà se qualcuno ha interesse a conoscere la sua storia...

 

Pubblicato per gentile concessione di:
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